martedì 11 agosto 2015

Voglia di lavorare

Diciotto luglio, tre e un quarto del pomeriggio.
Piazza Ara Coeli, a Roma, è come un’isola circondata dal sole e dall’afa.
Due autobus verdi inclinati su un lato, sperduti negli spazi rettangolari del capolinea, sembrano vecchi ricordi abbandonati al loro destino. L’autobus della linea 91 è ancora vuoto.
Il primo passeggero a salire è un signore in giacca e cravatta, di età indefinita, con una borsa da avvocato; il secondo e il terzo passeggero sono una signora piuttosto attraente insieme al bambino; il quarto passeggero è un omone corpulento, che si depone sul proprio sedile con un esagerato sospiro. Tutti e quattro si trovano nella metà anteriore dell’autobus, vicino al posto guida del conducente, assente.
Soltanto l’uomo in giacca e cravatta ha scelto un posto rivolto in avanti, verso il frontale della vettura, mentre l’omone, la signora e il bambino si sono accomodati in due file di sedili sistemati gli uni di fronte agli altri: l’omone da una parte, la mamma col bambino dalla parte opposta, il signore con la borsa da avvocato un po’ defilato.
«Che caldo terribile», dice l’omone a tutti, asciugandosi il collo con un fazzoletto di cotone. Ha più di sessant’anni, il viso grande e poche rughe, le maniche della camicia rimboccate, le braccia assai robuste. Alla signora chiede: «E' molto tempo che aspettate di partire?» La signora sorride timidamente. «Veramente sono salita solo da un paio di minuti.»
L'omone annuisce e si rivolge all'uomo con la borsa da avvocato: «E lei? Sta aspettando da molto?»
Il professionista non gira nemmeno lo sguardo. «Io sono salito un attimo prima della signora.»
«Ah.»
C'è “Ah” e “ah”, e quello dell'omone non è nemmeno lontanamente un “Ah” di soddisfazione. Si guarda un poco intorno, per valutare la situazione, dopodiché si rivolge di nuovo alla signora.
«Che bel bambino simpatico. Quanti anni ha?»
Il bambino in questione, seduto a gambe penzoloni accanto alla mammina, comincia a battere i talloni contro la base del sedile.
La signora sorride e dice, accarezzandogli la testa: «Quattro anni e mezzo». Immediatamente il piccolo si mette a battere i piedi ancora più forte. «E come ti chiami, eh?», insiste l'omone, che a quanto pare ha voglia di chiacchierare.
Il bambino si protende in avanti e si gonfia come un rospo. «Alessandro!», proclama, con voce lacerante, facendo sussultare il signore con la borsa. Salgono altre tre persone: due ragazze dalla carnagione molto pallida e un ragazzo con gli occhi da orientale. Prendono posto in tre sedili uno dietro l'altro, sul lato destro della vettura e quasi in fondo, ben separati dagli altri passeggeri. Dal modo di vestire e soprattutto dal modo di sorridere, senza apparente motivo e senza apparente riposo, si capisce che sono stranieri, soltanto di passaggio, e non indigeni locali, costretti a rimanere. L'omone li osserva con disapprovazione, tamponandosi il sudore con il fazzoletto di cotone. Ha i primi due bottoni in alto della camicia bianca sbottonati e da sotto sporge il collo di una vissuta canottiera.
«So la canzone di Furia», dichiara il figlio della signora, smettendo di battere i talloni. L'omone dice: «Ah sì? Che bravo» e subito dopo aggiunge: «Ma non parte mai, quest'autobus? L'autista se ne è andato al bar, scommetto. Mentre noi, qui dentro, ci schiattiamo di caldo!»
La lamentela è chiara, l'accusa pure. Le parole si spandono nella vettura, con una durezza inaspettata, che, esaurito l’effetto effimero della sorpresa, non producono particolari risultati. Nessun commento da parte del signore in giacca e cravatta, che tira fuori dalla sua borsa un quotidiano spiegazzato; un sorriso incerto sul volto della bella signora, che sposta lo sguardo verso un punto lontano, al di là dei finestrini; un paio di risatine prive di significato dalle due ragazze pallide e straniere; un’occhiata di sbieco, un po’ preoccupata, da parte del loro amico con gli occhi a mandorla, tipo cane da pastore che controlla l’orizzonte.
Solo il bambino riprende l'iniziativa.
«Ti canto la canzone di Furia, eh?», propone, con aria speranzosa, e basta che l'omone sorrida automaticamente per attaccare a razzo: «Furia cavallo del west! Che beve solo caffè!»
Al suono di queste stridule strofette, sale l'autista dell’autobus. Un giovanotto dall'aria diffidente, che apre lo sportelletto di vetro del suo posto di guida e si immerge subito nella lettura di un giornale sportivo.
«Speriamo che adesso si parte», commenta l'omone, strizzando un occhio e facendo segno con la testa verso la cabina di guida. «Che c'è a chi gli piace vestirsi e c'è a chi gli piace tuffarsi, non so se mi spiego.» Non si era spiegato affatto, ma la signora di fronte a lui per cortesia sorride.
Il bambino intanto prosegue la sua esibizione. Purtroppo conosce poco e niente della famosa canzone che vorrebbe cantare, e la frase “Furia cavallo del west!” comincia a ripetersi in maniera molto allarmante, non facendo avanzare di un passo la melodia.
«Dai, smettila Alessandro», propone ogni tanto la madre, con la scarsa convinzione di chi è assuefatto alla sconfitta. Al terzo invito inutile, il signore in giacca e cravatta si alza per andarsi a sedere più lontano, con l’aria di chi ha già ucciso per molto meno.
L'omone gira su se stesso e si rivolge direttamente al conducente, sventolandosi il viso con il fazzoletto. «Ma non parte più, quest'autobus?», dice. «E' un'ora che stiamo aspettando, qua.»
L'autista risponde senza girarsi e senza smuovere le pagine del suo giornale. «L'autobus parte quando è ora di partire, alle tredici e venticinque. C'è una tabella di marcia che bisogna rispettare.»
L'omone alza le spalle e si asciuga la fronte, che luccica vistosamente. «Quando gli fa comodo, c'è la tabella di marcia», commenta in tono sarcastico, cercando lo sguardo della bella signora.
Il ragazzo straniero mormora qualcosa di incomprensibile e le sue amiche ridono come bambine. «Ecco, la figura che ci facciamo, con i turisti», commenta l'omone, puntando il doppiomento verso il terzetto. «Che poi ci meravigliamo, quando dicono che gli italiani sono sfaticati.»
Stavolta l'autista dell'autobus si agita sul sedile, mandando un primo segnale di irritazione, ma a parte questo non dice nulla, neanche un sospiro, e l'uomo corpulento si rivolge di nuovo alla signora.
«Ma lei che ora fa? Possibile che ancora non sono le tre e venticinque?»
Lei ruota delicatamente il polso, per guardare l’ora sull'orologio.
«Io faccio le tre e ventitrè.»
«Allora, se Dio vuole, tra due minuti partiamo», conclude l'omone, con una smorfia carica di sarcasmo.
Segue un silenzio gonfio d’imbarazzante attesa, che in qualche modo contagia anche il bambino. Il fazzoletto dell’uomo che si sta lamentando, sventola incessamente avanti e indietro.
A pochi secondi dalle tre e venticinque, facendo ricorso al proprio orologio interno, l'omone non riesce a trattenersi e dice ad alta voce: «Voglia di lavorare, saltami addosso.»
Nella cabina di guida si sente il rumore del giornale sportivo, che viene sbattuto da qualche parte, e quello della leva del cambio, che viene strattonata avanti e indietro, mettendo in moto diabolici meccanismi.
Il motore borbotta di scontentezza e tutto l'autobus prende a vibrare in maniera evidente. Le porte dell’autobus si chiudono bruscamente e la vettura comincia ad allontanarsi dal suo capolinea.

Come già detto, piazza Ara Coeli è una piccola isola circondata dal caldo e dalla strada asfaltata.
Il 91 gira intorno all'isola, la costeggia con calma seguendo un arco di 180 gradi, quindi si ritrova sul lato opposto della stessa via da cui è partito (centocinquanta, duecento metri un po’ più avanti) dove c’è una fermata d’autobus che riguarda tre-quattro linee, oltre a quella del 91. Poiché in quel momento non c’è neanche un’anima, ad aspettare sul marciapiede, il conducente continua tranquillo, la stessa andatura, quando inaspettatamente si sente squillare il campanello di richiesta di stop.
Sebbene sorpreso, l'autista frena e poi rifrena un po’ più forte, finchè la vettura non si ferma completamente, quindi borbotta qualcosa che non si capisce bene e guarda nello specchietto retrovisore interno, per capire chi è che ha suonato per la fermata.
Maestosamente, con indolente fatica, come un monarca ormai segnato dagli anni, l'omone si alza e si dirige verso le porte aperte della discesa.
Con tutti i presenti che lo guardano affascinati, posa il suo corpo sui tre gradini, uno per volta, con più cautela di un esploratore spaziale. Tre piccoli passi, per un uomo. Un gigantesco balzo per l’Atac.
«Ma guarda ‘sto stronzo», si sente chiaramente, dalla cabina dell'autista, dopodichè le porte di uscita vengono chiuse e la vettura riprende la corsa.
“Se se la faceva a piedi, ci metteva meno di cinque minuti”, è il pensiero di tutti, a bordo del mezzo pubblico. Con un accordo raro, tra passeggeri e conducente, riguardo alla valutazione morale dell’accaduto.
“E sì, era proprio uno stronzo.”


[autore Andrea Bellizzi]

domenica 9 agosto 2015

Piani alti

“Avrei preferito un appartamento all’ultimo piano”, disse la ragazza guardando malinconicamente il bellissimo grattacielo.
Nonostante il cielo molto nuvoloso, che faceva filtrare solo pochi raggi di sole, alcune finestre brillavano come fari.
“Sì, lo capisco. Purtroppo abbiamo avuto moltissime richieste, in questo periodo”, spiegò l’incaricato dell’agenzia immobiliare, comprensivo.
Due giorni dopo, il satellite Felix 5 della NASA confermò che il secondo diluvio universale era cominciato davvero.


[autore Andrea Bellizzi]

sabato 25 luglio 2015

Piani diabolici

Il dottor White ridacchiò soddisfatto, guardandosi intorno con le mani poggiate sui fianchi.
L’obiettivo della microcamera era nascosto benissimo, lontano dalla doccia vetrata. La vaschetta con dentro il serpente era pronta. Il meccanismo che prima faceva scorrere la piastrella e poi la rimetteva al suo posto funzionava da Dio.
Il momento di agire era alla fine arrivato. Il meritato trionfo era a portata di mano.
Il dottore guardò in direzione della microcamera, perfettamente occultata, e mosse la mano destra in segno di cordiale saluto. Quell’efficiente aggeggino gli permetteva di controllare tutto a distanza e, al momento giusto, di passare all’azione.
Per l’ennesima volta ripassò mentalmente il suo piano diabolico.
1: sua moglie Ethel entra dentro la doccia (come ogni sera, prima di andare a dormire) e lui, clic, attiva il comando a distanza.
2: la piastrella sopra la doccia si abbassa ad angolo retto e la vaschetta con dentro il serpente (un esemplare di Pseudonaja Textilis, per essere esatti) crolla di sotto.
3: la doccia è piccola, il contatto non si può evitare: un istante dopo l’impatto il serpente (dal brutto carattere) istintivamente morde che gli capita a tiro.
4: lui attivava un altro tasto del comando a distanza. La porta della stanza da bagno si chiude da sola.
5: quando la moglie, riversa per terra, non si muove più da un sacco di tempo, lui fa un ultimo clic sul comando a distanza e la porta del bagno ritorna sbloccata.
Voilà, il gioco è fatto.
La polizia cosa avrebbe trovato? Un’indifesa donnina defunta, in compagnia di un serpentaccio ben vivo.
Dato che erano in un giardino zoologico pieno di bestie pericolose, che c’era di strano se qualcuno era fuggito da una gabbia fetente per rifugiarsi in un appartamento ospitale?
Non c’era nessun motivo perché gli investigatori si mettessero a cercare altro. E tanto meno a controllare ogni centimetro della superficie di un bagno. Estremamente logico e razionale. Praticamente perfetto. Era orgoglioso di sè.
A questo punto poteva anche Immaginare i titoli dei giornali: “Direttrice dello zoo di Rosenville uccisa dal morso di uno dei suoi serpenti”, “La povera vittima tradita dalla sua passione per gli animali”. E soprattutto: “Il dottor Christopher White, marito amorevole e valente veterinario, sconvolto dall’inatteso dolore”.
Ahimé, com’è crudele il mondo.
Ora doveva soltanto allontanarsi il più velocemente possibile e a una giusta distanza. Il tempo e lo spazio erano fondamentali, per garantirsi un alibi come si deve, e la sua casetta in campagna sarebbe stata perfetta. Con tanti vicini a disposizione, avrebbe avuto anche degli ottimi testimoni.
Avere buoni rapporti, con un buon numero d’imbecilli, è certamente una comodità.
Il dottor White sorrise talmente tanto che dovette chiudere gli occhi. Quando sarebbe stato libero completamente, chissà che altre cose fantastiche avrebbe potuto inventare.
Perché la cara consorte, priva di estro creativo, non aveva mai condiviso la sua passione per i congegni meccanici e le strutture complesse. Secondo lei occupavano spazio, ne occupavano troppo. Così lui aveva preso i suoi giochi ingegnosi e li aveva portati nella casa in campagna. E li si era sbizzarrito, per ricompensarla a dovere.
Ancora gongolava, appena fuori l’appartamento-ufficio che divideva con quella palla al piede della sua consorte, quando qualcosa di enorme lo stramazzò per terra e lo fece rapidamente a pezzi.
Si trattava di Altaj, una tigre siberiana di duecentosettanta chili, che per misteriosi motivi lo detestava da sempre.
Come sapeva benissimo chi dirigeva da anni il giardino zoologico.


[autore Andrea Bellizzi]

venerdì 17 luglio 2015

Mi ami?

“Mi ami?”, chiese Claretta.
“Sì”, rispose Anton Giulio.
“Ma, mi ami davvero?”, chiese Claretta.
“Sì. Certamente”, rispose Anton Giulio.
“E quanto è grande, il tuo amore?”, chiese Claretta.
“Beh, è senza fine”, rispose Anton Giulio.
“E, faresti qualunque cosa, per me?”, chiese Claretta.
“Sì, certamente. Tutto”, rispose Anton Giulio.
“Allora, ruberesti anche, se te lo chiedessi”, disse Claretta.
“Anche a mia madre”, disse con voce profonda Anton Giulio.
“E magari, uccideresti, anche?”, chiese Claretta.
“La mia intera famiglia e tutti i miei amici”, disse con voce convinta Anton Giulio.
“Quindi faresti tutto, per me”, concluse Claretta.
“Sì. Te l’ho detto. Tutto”, confermò Anton Giulio, quasi commosso.
“Beh, allora odiami. Perché mi sono innamorata di una altro”, disse, con decisione, Claretta.
Anton Giulio dovette pensarci sopra. “Cosa?”
Claretta lo fissò intensamente. “Mi sono innamorata di un altro. Non ci posso far niente”.
Due giorni prima, una manciata di ore appena, Claretta aveva detto di amarlo intensamente. Usando, per esattezza, queste parole: “Sai, ti amo davvero tanto. Non ho mai conosciuto un uomo dolce e tenero come te.”
Anton Giulio dovette pensarci sopra. Un altro poco, almeno. “Come?”
“E non guardarmi con quell'aria da vittima!”, si spazientì Claretta. “Io, non ti amo, più!”, scandì con estrema chiarezza. “La nostra storia è finita.” Pausa piuttosto aggressiva. “La colpa non è di nessuno.” Pausa un po’ più conciliante.
“Ah”, pensò Anton Giulio, provato.
La mente a spasso, il corpo lasciato a sé, il braccio destro partì con un pugno, teso.
Claretta cadde elegantemente al suolo.


[autore Andrea Bellizzi]

Maledetta estate

"Maledetta estate", pensò Luigi, asciugandosi il sudore che gli impastava il collo.
"A lavorare così, finirò col farmi scoppiare il cuore".
Il bagaglio da sistemare perdeva litri di sangue, che non si poteva lasciare a languire. Per non parlare di quanta fatica occorreva, a impacchettare tutto per bene.
Forse sarebbe stato meglio fare come desiderava suo padre, il conducente di un autobus. Comodamente seduto ad osservare il mondo dall'alto. Con il carattere storto che si ritrovava, però, prima o poi avrebbe steso qualche automobilista arrogante o qualche pedone sventato. Non ricavandoci altro che riprovazione e sanzioni.
Almeno, in questo modo, veniva apprezzato e pagato.
"Pazienza", sospirò a bassa voce, quindi tirò fuori dalla sua valigetta tutto ciò che serviva per fare a pezzi il bagaglio e per ripulire la zona.


[autore Andrea Bellizzi]

venerdì 22 febbraio 2013

L'ultimo voto (cap. 7 - FINE)

C’era un accordo, rimuginò Maurizio. E con il suo voto avrebbe fatto vincere il governo… ma proprio il governo, con i suoi errori, avrebbe dimostrato che aveva ragione l’opposizione. Partì deciso. «Beh, mi dispiace, ma io non sono d’accordo. Non potete costringermi a fare una cosa che non voglio fare. Io ho il diritto di…»
«Allora non ha capito, Zadra! Le stiamo parlando del bene della Federazione, non del suo», si spazientì Sparini. «Se crede che a me piaccia, questa storia... Ma non è questione di gusti personali. Con un inutile cinquanta per cento più uno, avremmo soltanto una merdosa vittoria di Pirro! Per quello che dobbiamo fare, per la medicina velenosa che dovremo dare a tutti, non possiamo fare affidamento solo su metà della popolazione o sui voti incerti degli astenuti. Dobbiamo essere pragmatici e pazienti, per poter introdurre i nostri cambiamenti. Dovremo essere più che intelligenti: dovremo essere disperati! E per fare questo dovremo utilizzare anche la collaborazione dei nostri avversari… Anzi, soprattutto la loro collaborazione.» Maurizio si tirò su a sedere per bene, usando tutta la forza che aveva in corpo. «Sì, ho capito. Può darsi che abbiate fatto tutti i ragionamenti giusti e che questo sia uno splendido piano per il futuro... Intanto, però, lei è l’unico signore del suo partito e dell'opposizione che ho sentito, e comunque sia non voglio finire sui giornali o peggio ancora sui libri di scuola per avere votato a cavolo e non come volevo io. Insomma, non voglio essere comandato.» «Comandato? Guardi che lei può fare come vuole», ribatté Sparini. «Se pensa di essere più intelligente dei migliori analisti politici che il paese abbia a disposizione…»
L’onorevole gettò la sigaretta in terra e prese un videofonino da una tasca interna della giacca. «Per quanto riguarda altri signori più autorevoli di me, l’accontento subito», disse, componendo velocemente un numero. «Pronto? Sì, sono Sparini. Il nostro uomo ha dei dubbi e desidera conferme.» Un leggero brusio dal parallepipedo nero e l’onorevole passò l’apparecchio a Maurizio. «Ecco a lei, Zadra. Le basta parlare con i segretari di Assistenza e Cooperazione, Democrazia Nazionale e Uguaglianza Per Tutti?»
Lo schermo del videofonino rimandava l'immagine di tre uomini dai volti tirati, fin troppo famosi.
Maurizio prese l'apparecchio e parlò con i segretari dei maggiori partiti del blocco di opposizione, che gli confermarono parola per parola le richieste di Sparini. Lui, che non se l’aspettava, disse ben poco. Frastornato com’era, borbottò molti “però”, “beh”, “forse”, “capisco”; ma la parola più importante che disse fu “no”.
Maurizio restituì il videofonino all’onorevole e quello lo usò per dire: «Sì... Sì... Va bene... Ho capito.» Sparini rimise il videofonino in tasca e guardò Maurizio insistentemente, come d’altronde fece anche il ministro Mariani. Il primo a cedere fu Maurizio, che disse: «Mi dispiace. Mi dispiace molto, ma... Questa faccenda per me è troppo grave e complicata. Non ci riesco ad affrontarla, mi dispiace.»
«Quindi che intende fare? Votare per l’opposizione?», chiese il Ministro dell’Informazione.
Maurizio si costrinse a mostrare fermezza. «Io non intendo fare niente. Resterò in questa stanza, oppure dentro casa mia, a curarmi. Questa volta non andrò a votare per nessuno. Sono in convalescenza, e per ora ci voglio rimanere.»
Sparini annuì senza manifestare alcuna emozione. Si limitò a dire: «Capisco. Lei se ne lava le mani.»
Maurizio preferì non ribattere niente, a disagio.
«Arrivederci, signor Zadra. Auguri per la sua convalescenza.»
Il ministro Mariani da parte sua fu ancora più sintetico. Disse soltanto: «Arrivederci», e seguì Sparini fuori della stanza.
* * *
Nel corridoio, seduti in due panchine separate, c’erano il dottor Luciani e l’infermiera giovane e carina, più due uomini in piedi, dall’aria efficiente e pericolosa.
Sparini e Mariani fecero segno al dottor Luciani di seguirli, mentre il dottore disse all’infermiera di entrare nella stanza di Zadra.
«E adesso?», chiese il rappresentante del governo al rappresentante dell’opposizione, a bassa voce.
«Adesso adottiamo il piano B, come era previsto in questo caso», rispose Sparini, guardando il dottor Luciani.
«La signora Vanni?», chiese il dottore, per avere conferma delle istruzioni già avute.
«Sì, la signora Vanni», confermò Sparini. «Zadra invece va rimesso a riposo.»
Il dottore annuì, per far capire che aveva capito, e si allontanò con passo spedito.
Sparini si accese con nervosismo un’altra sigaretta.
«Pensa che con questa Vanni avremo più successo?», chiese Mariani, mettendo in bocca una caramella dal forte odore di menta.
«Dal suo dossier risulta che ha bisogno di quattrini», rispose Sparini. Passò al ministro un foglio di carta ripiegato.
«Ah. Nell’incidente il marito è morto, e mentre lei era in coma la figlia è stata affidata a una zia… Poteva contare soltanto sulle entrate del marito, quindi non penso proprio che ci darà problemi», commentò Mariani.
Sparini annuì e il ministro Mariani si rilassò ulteriormente. Sparini annuì e il ministro Mariani si sbilanciò ulteriormente. «Era più adatto un uomo, per dare peso al voto, ma tutto sommato va bene lo stesso... Sicuramente non ci sarà bisogno del piano C, mio caro amico.»
Sparini aspirò con forza e le sue narici fumarono come se fosse un vecchio drago. «No. Penso di no», disse, a bassa voce. E più per se stesso che per Mariani aggiunse: «Esimio collega.»


[FINE] [autore Andrea Bellizzi]

lunedì 18 febbraio 2013

L'ultimo voto (cap. 6)

Maurizio si ribellò immediatamente. «Come sarebbe a dire? Io non ho mica detto che voterò per lui!» Mariani annuì e sollevò le mani in modo conciliante. «Non si innervosisca, signor Zadra, e invece ci ascolti con attenzione. E’ per questo che abbiamo qui anche il collega di Assistenza e Cooperazione. Quello che le chiediamo, glielo chiediamo nell'interesse generale, di tutti quanti. E dunque, non di meno, anche nell’interesse dell'opposizione, che è completamente d'accordo.» Maurizio guardò il rappresentante del maggior partito di opposizione. «Quello che dice Mariani è vero», confermò Sparini. «Anche noi le chiediamo di dare il suo voto al governo attuale.» Maurizio era sconcertato. «Ma perché? Per quale motivo?» Sparini tirò fuori da una tasca un pacchetto di sigarette al mentolo e se ne accese una con calma. Aspirò una boccata di apparente benessere e disse: «Il governo ci sta lasciando un’eredità economica e politica fallimentare e un buco nelle casse dello Stato impressionante.» Il ministro Mariani sorrise. «Caro collega…» L’onorevole Sparini non lo fece proseguire. «Mi lasci dire, Mariani. Lasci stare. La situazione internazionale è un disastro, con gli americani e gli inglesi che tirano da un lato, i francesi e i tedeschi da un altro. L’appoggio militare che abbiamo assurdamente fornito a parti in conflitto tra loro in medio oriente e in Africa è ancora peggio. Degli accordi capestro, conclusi con il governo russo e col governo cinese in cambio di indebitamenti sconsiderati, non ne parliamo… Ormai la pezza di stoffa con cui coprivamo alla bell’e meglio la nostra economia malata è disseminata di buchi. Contiamo sempre di meno, nel mondo, e persino il governo albanese ha cominciato ad alzare la voce con noi.» Sparini aspirò un’altra profonda boccata. «Far fronte a questo disastro imminente con un unico voto di maggioranza, sarebbe un suicidio politico, in questo momento. Se a comandare fossimo noi, qualsiasi decisione dovessimo prendere per contrastare un tracollo in gran parte ancora nascosto al pubblico, con sacrifici e rinunce terribili da fare ingoiare a forza ad ogni elettore, brucerebbe tutto il consenso che siamo riusciti a recuperare negli ultimi mesi... E questo non ce lo possiamo permettere.» «Ma perché? Che cosa dice?», protestò Maurizio. «Con questo ragionamento, aspettare ancora vorrebbe dire solo far peggiorare la situazione!» Sparini non esitò neanche un secondo. «C’è un accordo con Pontelungo. Gli lasciamo altri sei mesi. Cominceranno loro ad applicare un nuovo regime di austerità e di tassazione più rigoroso, che sconcerterà i loro elettori. Fra sei mesi esatti ci sarà un’altra crisi ufficiale del governo, ma questa volta sarà definitiva. Dimissioni per ragioni di salute del Presidente Federale, scioglimento delle camere, nuove elezioni. Noi prevediamo che da qui a sei mesi Slancio Vitale perderà più della metà degli elettori e che l’opposizione riuscirà a raggiungere oltre il 70 per cento dei consensi. Pontelungo, da parte sua, ci darà da subito una mano diminuendo fino a zero la sua presenza in video e le dichiarazioni alla stampa. In modo da preparare la sua scomparsa, definitiva e irrevocabile, dalla scena.» «Il presidente comprende che è tempo di un passaggio di consegne in tempi ragionevoli», concesse il ministro Mariani. «Gli animi si sono scaldati troppo, in queste settimane di competizione.» «Già. Apprezziamo la presa di coscienza del presidente e dei suoi alleati», diede atto il rappresentante dell’opposizione, senza guardare altro che il fumo della sua sigaretta, sospeso nell’aria.